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Incontro con il regista di “Una Separazione” Asghar Farhadi

13/10/2011 | Interviste
Incontro con il regista di Una Separazione Asghar Farhadi

Un incontro folgorante ed istruttivo quello che abbiamo avuto ieri a Roma. Una tavola rotonda insieme al regista iraniano Asghar Farhadi, che ha il sapore di una lezione di cinema e insieme antropologia culturale. Un viaggio in una cinematografia, quella iraniana appunto, messa a dura prova dalla censura indiscriminata, ma capace di tirare fuori pellicole come Una separazione, che oltre a fare incetta di premi fra i quali il più prestigioso è  l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2011, è anche un record di incassi per un film iraniano. Il regista, disponibile ed attento alle nostre domande, era accompagnato da uno degli interpreti, Babak Karimi, che vivendo e lavorando da molti anni in Italia è stato anche un ottimo traduttore per l’intervista.

Sappiamo che ha dovuto sospendere la produzione del suo film a causa della sua aperta dichiarazione di sostegno al  regista Jafar Panahi. Ci può raccontare come sono andate le cose?

La pellicola ha avuto una grande partecipazione affettiva da parte del pubblico e della critica e questa lo ha in qualche modo salvato dal macero. Quando fu fermata la lavorazione il film non era ancora finito, quindi nessuno sapeva di cosa avrebbe parlato. Una volta terminato gli spettatori l’hanno visto e la critica lo ha apprezzato, a quel punto era difficile toglierlo di mezzo. Non è comunque un film urlato o di propaganda, anche se vengono dette alcune cose o espressi dei giudizi.

In qualche modo l’incipit del film è un evento che rimane marginale…

Secondo me ci sono due modi molto diversi di narrare una storia: possiamo parlare di grandi eventi, oppure di fatti quotidiani apparentemente insignificanti. Io preferisco questa seconda modalità: siamo spesso convinti che siano i grandi avvenimenti a segnare il nostro destino, ma se analizziamo le radici di tutta una serie di cambiamenti ci accorgiamo che sono stati fatti apparentemente irrilevanti a determinare le nostre scelte.

“La legge non capisce queste cose, o sapevi o non sapevi”. E’ una frase che il protagonista Nader dice a sua figlia. E’ forse un modo per spiegarle che in alcuni casi la menzogna è una necessaria via di fuga?

Il padre non vuole giustificare la menzogna, ma le spiega che ci sono una serie di circostanze che lo portano a mentire. Nel corso di tutto il film non fa altro che spiegare le regole della vita sociale: dalla scena della pompa di benzina, fino all’educazione nelle scuole e man mano che va avanti questo insegnamento diventa più complicato e intricato.

Perché sceglie di utilizzare la tragedia come espediente narrativo?

Ho un rapporto più intimo con il dramma e con le storie tristi. Le tragedie che rappresento però non sono certo quelle classiche, cioè la lotta tra bene e male. Nella tragedia tradizionale c’è un conflitto tra i buoni e i cattivi e fin dall’inizio il pubblico tifa per i buoni. Qui, invece, la lotta è tra buoni e fino alla fine non sei sicuro chi e se ci sia un reale vincitore. In ogni caso non sei soddisfatto; è come se non ci fosse stata giustizia, ed è questa a mio parere la tragedia moderna.

Come nel suo precedente film About Elly non c’è mai un’assoluzione totale nei confronti dei personaggi.
In tutta la mia carriera teatrale e cinematografica non ho mai avuto un personaggio definibile come cattivo, penso che tutte le persone abbiano diritto ad una percentuale di errore nella propria vita, anzi un mondo senza errori non sarebbe per niente un bel mondo, sarebbe spaventoso. Nessuno è al cento per cento buono o cattivo, e l’argomento centrale del film è in quale percentuale possiamo definire buona o cattiva una persona.

Ci sono alcune scene chiave nel film che vengono presentate al pubblico attraverso dei filtri: una porta, una finestra, lo specchietto retrovisore della macchina. Si tratta di una scelta stilistica precisa?

In effetti ho iniziato ad utilizzare questo linguaggio già nel film precedente. Tra la macchina da presa e i miei personaggi ci sono una serie di disturbi, c’è qualcosa che passa in mezzo quindi la sensazione è che non ci si possa approcciare direttamente a quelle persone o avvicinarle tranquillamente.

Sappiamo che in Iran c’è una situazione ben precisa riguardo la censura. Può dirci esattamente come vanno le cose?

Ogni anno in Iran c’è una media di 100 film prodotti e circa 80 di questi non hanno problemi con la censura e la censura non ha problemi con loro. Di solito c’è una percentuale più limitata di film, magari impegnati, che hanno problemi di questo tipo, ma non dobbiamo pensare che qualunque opera abbia problemi con la censura sia automaticamente un bel film. Diciamo che c’è una fetta più ridotta che trova questo ostacolo e deve fare un’ulteriore fatica per scavalcarlo. Tra questi c’è anche il mio; ma preferisco non parlare mai dei miei film - sia quelli censurati sia quelli che non hanno avuto questo tipo di difficoltà - prima che il pubblico li abbia visti. Non amo fare del vittimismo, e non voglio che le persone vadano a vederlo unicamente perché pensano: “Poverino, quanto ha sofferto per farlo!”

Serena Guidoni
 

 


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